Pensione integrativa, tra rischi e opportunità

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La situazione economica degli italiani è sempre più preoccupante. Sale di mese in mese il numero di coloro che dovrebbero andare in pensione, ma che non sono adeguatamente assistiti dalle forme classiche di previdenza sociale. Neppure la mossa della cosiddetta “APE” - acronimo di Anticipo Pensionistico -è riuscita a smuovere le acque e ha anzi provocato l’uscita dal mondo del lavoro di centinaia di lavoratori a cui l’INPS non ha tuttora fatto recapitare gli assegni della pensione. Il sistema pensioni in Italia sembra essere quindi sull’orlo del baratro e la riforma con relativo innalzamento dell’età minima non sembra essere sufficiente.

Tra le tante ombre, però, gli italiani sembrano fidarsi e affidarsi a quelle forme di previdenza complementare o integrativa. La prima opzione resta quella riservata a classi di lavoratori, ma i calcoli attuali non restituiscono margini incoraggianti per pensare ad una vecchiaia vissuta in totale serenità. Per tutta questa serie di motivi, salgono le “quotazioni” della previdenza integrativa, ossia di quelle forme pensionistiche che il lavoratore decide di sottrarre in autonomia dal proprio stipendio per andare a formare un “salvadanaio” da riservare agli ultimi anni di vita.  

Non mancano certo i dubbi e le critiche sul sistema personalizzato di investimento, che potrebbe infatti sottoporre il lavoratore a tanti rischi. La mancanza di trasparenza di alcuni istituti e la presenza di un monte costi imponente possono erodere i profitti che potrebbero essere ottenuti nel caso di una formazione finanziaria di tipo autonomo. In Italia, però, tale cultura non è ancora del tutto sviluppata, visto che, come si evince dalle ricerche, i cittadini possono essere paragonati dal punto di vista finanziario agli africani. Con un livello di alfabetizzazione finanziaria così irrisorio, il risparmiatore si affida ai consulenti finanziari, spesso ricevendo in cambio qualche delusione di troppo e un rispetto delle normative vigenti non certo oculato. Ed è proprio la mancanza di fiducia a caratterizzare lo scoglio più ampio per quelle società che hanno fatto della trasparenza e della flessibilità il proprio credo.

Esponendosi quindi ad una serie di rischi commisurati alla propria indole finanziaria, il lavoratore può cercare di costruire, mattoncino dopo mattoncino, un futuro più sereno. Sarà necessaria tanta costanza negli investimenti, il rispetto dei vincoli di prelievo e movimenti e la scelta giusta nella valutazione del consulente finanziario a cui affidarsi. Tra i prodotti finanziari più evoluti figurano i cosiddetti Piani di Accumulo Capitale, ma il più indicato per un’integrazione della previdenza sociale è il cosiddetto PIP, acronimo di Piano Individuale Pensionistico: si tratta di uno strumento fortemente personalizzabile, che concede ampio margine di modifica dell’investimento – in positivo o in negativo – senza dover incorrere in penali. I PIP si presentano sotto forma di panieri che investono quanto raccolto in altri strumenti finanziari, siano essi fondi comuni o ETF.

La strategia varia a seconda di chi gestisce il piano, ma solitamente si punta alla prudenza, ad archi temporali molto lunghi e a profitti visibili nel tempo. Nel momento in cui il lavoratore raggiungerà l’età pensionabile, si vedrà versare dall’ente scelto una rendita mensile extra, oppure potrà scegliere di ritirare metà dell’importo versato al momento. Solo in casi particolari il lavoratore potrà ritirare una parte dell’importo in maniera anticipata, ma il vantaggio di un investimento deducibile fino a 5164.67 euro all’anno e di una rendita mensile ad integrazione della pensione rendono questi fondi particolarmente interessanti e profittevoli.