Centocinquanta film da raccontare in prima persona e almeno
altrettanti da commentare, a partire dagli albori del cinema e i
fratelli Lumiere fino a toccare aspetti unici e singolari di questa
straordinaria settima arte. Roberto Perpignani, ospite del Sardinia
Film Festival, ieri (10 luglio) ha tenuto una masterclass al Teatro
Civico di Sassari, dove ha sfoderato aneddoti e curiosità su una lunga
e prestigiosa carriera, che si intreccia con aspetti memorabili della
storia del cinema. Aspetti che coinvolgono anche la Sardegna.
Il maestro di montaggio cinematografico ha parlato degli inizi con
Orson Welles. Tra i due c’era un rapporto di affetto e stima
reciproca: «Aveva un carattere particolare. Posso dire di aver
assimilato senza consapevolezza ciò che stava accadendo. Era lui che
decideva. Mi diceva sempre “Non devi pensare, devi solo agire”, finché
un giorno mi fece i complimenti per un lavoro. “Stavolta ho dovuto
pensare”, risposi io. Se fosse stato un dio greco mi avrebbe
incenerito».
Sui film che riguardano la Sardegna i ricordi sono tanti. In primis
c’è “Padre padrone”, che vinse la Palma d’oro a Cannes nel ‘77.
All’epoca c’era una grande intesa con i fratelli Taviani, per i quali
Perpignani aveva già montato tre pellicole, “molto ostiche, tutti film
di ricerca, quasi estremisti linguisticamente parlando”.
Ma il legame con l’isola non si ferma qui.
Nel 1974 l’antropologo
Diego Carpitella gli chiese di recarsi a Castelsardo per fare un
documentario sulla cerimonia del Lunedì Santo. «Non avevo la troupe
adatta ma facemmo un documentario di 15 minuti – ha detto Perpignani
–. Mi ha dato molto. C’era un coro polifonico. In quella emissione
vocale sentivi che ognuno entrava con i tempi esatti a creare un
tessuto compatto di vibrazioni».
Un paio d’anni prima, lo stesso Carpitella gli aveva chiesto di
collaborare a un lavoro sul linguaggio del corpo in diverse parti
d’Italia. Prima a Napoli e poi in Barbagia, registrando le
caratteristiche dell’espressività del corpo durante le cerimonie
estive.
La scoperta fu che in Sardegna mancava la gestualità. Le persone
mostravano immobilità nell’impostazione del corpo, braccia incrociate
o sui fianchi, sguardo fisso, aspetti presenti per certi versi anche
nel ballo sardo o nel gioco della morra, che denotavano una cultura in
qualche modo chiusa.
Un rapporto dialetticamente opposto
all’attitudine napoletana di muovere le braccia e di fare diventare i
segni come vere rappresentazioni simboliche, sostitutive spesso della
parola.
«Tutte queste cose erano diventate per me fonti di riflessione e di
indagine – ha spiegato –.
Il montaggio avrebbe bisogno di tutti questi elementi affinché possano
diventare una ricchezza espressiva. Ma purtroppo il cinema schematizza
troppo l’avvicinamento eccessivo al soggetto, e spesso taglia fuori
non solo il corpo ma anche l’ambiente, che è invece parte della nostra
presenza».
Ma ci sono aspetti che un bravo montatore non deve assolutamente
trascurare.
Deve tenere conto del fatto che parla a qualcuno sul filo
della condivisione impulsiva, istintiva, emotiva: «Occorre far sì che
lo spettatore si senta coinvolto, si senta in qualche modo partecipe
di quella narrazione. Questo è il principio stesso della
condivisione».
In serata a Palazzo di Città sono state proiettate le opere in
concorso. Oggi (11 luglio) alle 18 è previsto l’arrivo del grande
regista Andrej Konchalovskji. Alle 21 gli sarà assegnato il premio
alla carriera.