Un allevatore di 60 anni di Laerru, in provincia di Sassari, è stato
rinviato a giudizio per i reati di uccisione e danneggiamento di
animali altrui nonché per l’uccisione di animali selvatici
particolarmente protetti, a seguito di un’operazione sul luogo del
Corpo forestale e di Vigilanza ambientale della Sardegna.
Si tratta del primo caso in Sardegna di rinvio a giudizio conseguente
all’impiego di sostanze tossiche.
Nei giorni scorsi il giudice per le indagini preliminari di Sassari
ha disposto infatti il rinvio a giudizio dell’indagato. I fatti
risalgono all’autunno del 2016, a seguito di lunghe e complesse
indagini a stretto contatto con la Procura della Repubblica di
Sassari.
Gli agenti della Stazione Forestale di Nulvi avevano allora avuto
notizia da alcuni cacciatori della morte dei propri cani per sospetto
avvelenamento in territorio di Laerru.
Dopo il primo accertamento il personale ha scoperto che già dal 2013 e
dal 2014 diversi cani erano stati uccisi dal veleno ma nell’estate del
2015 si era registrato un repentino aumento di casi delineando un
quadro ben più complesso.
Lo scorso gennaio la decisione di impiegare nelle indagini anche il
‘Nucleo Cinofilo Antiveleno’ (NCA), recentemente costituito dal Corpo
forestale nell’ambito del progetto Life Under Griffon Wings.
L’intervento, finanziato dal Programma LIFE dell’Unione europea,
prevede infatti un’azione specifica contro il fenomeno degli
avvelenamenti, considerati una minaccia per la sopravvivenza
dell’avvoltoio grifone in Sardegna. Il NCA, istituito con compiti di
prevenzione e repressione dell’uso illegale di veleni, a tutela della
fauna selvatica, utilizza cani addestrati alla ricerca di sostanze
tossiche, di esche avvelenate o di animali morti a causa di
avvelenamento, domestici e selvatici, occupandosi innanzi tutto delle
specie particolarmente protette da norme nazionali e internazionali.
Con l’intervento del Nucleo Cinofilo Antiveleno il quadro definiva
una ricostruzione allarmante dei fatti. Alla morte di due cani da
caccia, di razza Segugio italiano, avvenuta nell’autunno del 2015, era
seguito un periodo di relativa calma, ma nel settembre del 2016 erano
stati avvelenati ancora altri due cani da caccia, di razza Drathar.
Da qui un crescendo di eventi delineavano una vera e propria strage,
sino alle fino alle prime settimane del 2017 in cui alcuni cani
avvelenati sono stati salvati ma altri morivano mentre la vicenda
interessava anche altri animali: un cinghiale, un agnello, vari gatti,
corvi imperiali e diversi cani da pastore sono stati ritrovati
agonizzanti o morti.
I numerosi riscontri tecnico-scientifici, con la preziosa
collaborazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della
Sardegna che ha effettuato le analisi tossicologiche sulle carcasse
degli animali e sugli altri reperti, hanno permesso di individuare
esattamente le sostanze utilizzate per confezionare le esche
avvelenate. Le esche e i reperti rinvenuti, anche grazie all’impiego
del cane antiveleno, e la esatta identificazione dei principi attivi,
supportata dagli accertamenti e dalle analisi, hanno consentito
individuare con precisione i veleni usati.
L’azione del NCA nel corso delle diverse ispezioni, col supporto del
cane antiveleno King e del suo conduttore, un veterinario
dell’Università di Sassari, ha permesso di risalire a una decina di
siti critici con animali morti o tracce di veleno. Individuata anche
la motivazione del presunto autore dei reati: l’interesse a liberare
dalla fauna selvatica, specialmente da predatori quali volpi, martore
e altri, i terreni sarebbero stati sicuri da attacchi agli agnelli
appena nati.
L’accusa rivolta all’allevatore è di aver disseminato esche
avvelenate in tutti i suoi terreni in agro di Laerru, dove avrebbe poi
trasferito in sicurezza le sue pecore e gli agnelli.
In pochi mesi è stato provocato l’avvelenamento di almeno quattordici
cani domestici, per la gran parte con esiti letali, quattro gatti, un
cinghiale e cinque corvi imperiali. A questo bilancio manca il conto
di quegli animali, selvatici o meno, che sono andati a morire lontano
dall’area interessata. Le informazioni raccolte dai testimoni, la
ricerca delle prove e gli altri elementi raccolti hanno consentito
all’Autorità giudiziaria di procedere, qualche giorno fa, al rinvio a
giudizio dell’allevatore.
L’attività del Nucleo Cinofilo Antiveleno non si ferma ma continuerà
a ispezionare il territorio per impedire e reprimere l’abbandono di
esche e di veleni dannosi per gli animali e per l’ambiente in genere.
Lo studio dei casi di avvelenamento da parte dell’Istituto
Zooprofilattico fa emergere che è sempre maggiore il numero di animali
che muoiono per avvelenamento e che giungono nei loro laboratori.
E sempre più spesso i fatti si verificano nelle immediate periferie
o, addirittura, nei centri urbani, a dimostrazione che non si tratta
soltanto di un reato confinato nel modo rurale. L’uso di sostanze
tossiche, specialmente quelle più facilmente accessibili, che un tempo
poteva essere una pratica in uso quasi esclusivamente nel mondo
agropastorale per la difesa del bestiame o dei prodotti agricoli da
topi, lumache o volpi, è oggi sempre più spesso rilevato vicino agli
abitati rurali e in città, dove si registra un numero importante di
casi, in genere letali. I danni non sono più, quindi solo alla fauna
selvatica o ai cani randagi ma anche degli animali d’affezione, in
quanto i veleni sono utilizzati con grave superficialità e per futili
motivi: per zittire il cane del vicino che abbaia o fermare il gatto
che rovina le piante del giardino.
Le sostanze impiegate possono avere gli stessi esiti anche sulle
persone e che possono costituire un grave rischio per la salute degli
animali e degli umani anche solo per contatto.