Al museo della Tonnara di Stintino esperti e confronto sulle infezioni da batteri delle protesi

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Le infezioni delle protesi impiantate negli arti rappresentano un problema da non sottovalutare, soprattutto nella popolazione in età avanzata. Le terapie prevedono la necessità di più interventi chirurgici e lunghe cure antibiotiche, con un ingente costo in termini di sanità pubblica e un impatto, talvolta anche complesso, sulla salute psicologica e fisica del paziente. Una situazione che potrebbe essere evitata attraverso una più attenta diagnosi di questo tipo di infezioni e un loro migliore trattamento ospedaliero. È quanto emerso nei giorni scorsi durante una riunione operativa che si è svolta al Mut, museo della Tonnara di Stintino, e che ha visto riuniti attorno al tavolo il team della Medical microbiology research laboratory, della Facoltà di Medicina dell'Università inglese dell'East Anglia a Norwich, e i loro colleghi sassaresi del Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Ateneo turritano. I due gruppi di studiosi, che collaborano da diversi anni all'identificazione dei batteri che causano le infezioni da protesi, sono diretti rispettivamenti dai professori John Wain e Salvatore Rubino. Una collaborazione, quella tra i dipartimenti delle due Facoltà, che si è tradotto anche in scambio di ricercatori, studenti e dottorandi di ricerca. Lo studio presentato a Stintino dal gruppo inglese, che potrebbe avere importanti risvolti nella futura medicina personalizzata, ha messo in evidenza come si sia arrivati all’identificazione dei batteri che, individuati sulla cute dei pazienti, causano infezioni delle protesi. I microrganismi – è stato detto – sono in grado di produrre una biopellicola (biofilm) con la quale eludono l’intervento sia delle difese immunitarie che degli antibiotici. La ricerca ha portato a identificare qualsiasi battere, produttore di biopellicola. I due gruppi di ricerca puntano adesso a sviluppare metodologie genomiche per la valutazione del contenuto batterico della cute e del liquido sinoviale. Un'operazione che – hanno messo in evidenza – permetterà di valutare il rischio che questi microrganismi possono esercitare per eventuali infezioni delle protesi impiantate chirurgicamente che, spesso, possono richiedere ulteriori interventi chirurgici con reimpianti della stessa protesi, oltre a prolungate terapie antibiotiche. Con le tecnologie di sequenziamento di ultima generazione del genoma – sostengono gli studiosi – potrà essere possibile determinare, in tempi rapidissimi, l'intera sequenza genica del DNA di tutti i batteri presenti nei campioni prelevati dai pazienti. Così sarà possibile identificare in tempo reale quei batteri che producono la biopellicola e che sono i maggiori responsabili dei problemi scaturiti dagli impianti chirurgici. Attraverso la loro identificazione sarà possibile adottare, in maniera repentina, la terapia appropriata. Durante il meeting, inoltre, si è discusso su come la tecnologia possa essere sfruttata in collaborazione con l’Università di Sassari e l'Azienda ospedaliero universitaria e come sviluppare nuove capacità diagnostiche, per garantire un trattamento puntuale e precoce delle infezioni causate dal biofilm.