La prima riguarda l’Europa, intesa come entità istituzionale e
politica. Se da una parte si colgono lievi segnali delle istituzioni
europee di sostegno ai paesi (tutti) coinvolti nella crisi sanitaria
con quello che segue, niente si sta facendo per cogliere l’occasione
per una trasformazione della UE non più un insieme di “Stati”, ma una
comunità integrata che fa convivere differenze locali all’interno di
una coscienza unitaria.
Del resto tutti i paesi europei sono una
“composizione” e in ciascuno convivono situazioni, diciamo locali,
molto differenti per cultura, tradizioni, storia, ecc. In Italia, per
esempio, convivono la “civiltà” siciliana con quella veneta, quella
lombarda con quella pugliese, e così via. Ma dico banalità.
Nessuno sforzo si vede né nelle istituzioni politiche, né in quelle
burocratiche, per cogliere l’occasione e spingere verso l’unificazione
politica, amministrativa e sociale di tutti i paesi “soci” della UE.
Quando i singoli paesi finiranno per considerarsi soci, ma piuttosto
parti di una comunità articolata allora non già la UE ma l’Europa
potrà giocare le proprie potenziali sul piano sociale, della
democrazia ed economiche.
Ma di questo mutamento non c’è ombra.
Piuttosto quanto più si grida
“più Europa” tanto più si cerca di stringersi nel proprio particolare.
Il caso italiano mi sembra paradigmatico: se da una parte le voci,
perché di questo si tratta, antieuropei si sono acquetate, dall’altra
parte si grida sempre più e da più parti “più Europa”, ma
contemporaneamente si mettono in atto azioni (legislative) per
difendere le nostre imprese, anche quelle medio-piccole, da possibili
azioni di spoliazioni (acquisti) da parte di altri paesi europei.
Che si tratti di un riflesso di difesa (nazionalistico) non c’è
dubbio, che essa dipenda dall’assenza di una Europa è chiaro, ma
tuttavia resta una contraddizione tra un volere un’Europa comunità e
la difesa del proprio particolare nazionalista. In questa
contraddizione quello che emerge è una sorta di inconsapevolezza che
distingue i singoli paesi (le singole nazioni, se si preferisse) dal
capitalismo internazionale (senza confini e senza remore). Di questo
nessuno parla, anzi l’attenzione è posta tutta alla sua ripresa.
Questo ci porta alla seconda contraddizione, il mantra della
liquidità. Non c’è dubbio che esistono situazioni individuali e
familiari drammatiche, detto brutalmente di persone non in grado di
comprare da mangiare o non in grado di sfamare i propri figli, ed è
certo che nella situazione attuale lo Stato deve provvedere con forme
di reddito più o meno generalizzato e di sostegno a queste situazione.
Si tratta di una scelta di solidarietà collettiva, del rispetto di un
impegno civile assunto, di un atto di civiltà.
Questa è una parte delle liquidità di cui si parla, ma una più
sostanziosa viene programmata nei riguardi delle imprese. Impresa,
termine generico che contiene il piccolo artigiano, l’impresa con 5
dipendenti, il bar, il ristorante, ecc., ma anche le imprese maggiori
i gruppi, ecc. Non bisogna fare un grosso sforzo per capire che in
questa situazione e visti i provvedimenti presi dal governo, tranne le
imprese legate alle derrate alimentari (l’agricoltura ha dei problemi
suoi) e quelle legate alla produzione di articoli sanitaria (specifici
per l’epidemia) e poche altre, tutte le altre sono in difficoltà.
Tutte, non solo le più deboli, chiedono di essere aiutate, altri
chiedono anche che siano bloccati i provvedimenti contro la diffusione
del virus e che si torni a produrre.
Tutto molto ragionevole, e la liquidità a favore delle imprese si
muove in questa direzione. Ma vediamo quali riflessioni questo
andamento propone.
Si dice, si ripete, si spera, si desidera che nulla, dopo la crisi
sanitaria, sia come prima. Questa affermazione, che non appartiene a
piccoli gruppi o a elite “rivoluzionarie”, ma piuttosto alla coscienza
generale, è contraddetta dal provvedimento di cui ci si occupa.
Intervenire con ignizioni
di liquidità, cosa necessaria, senza avere uno straccio di programma
dei mutamenti produttivi da introdurre, appare come la negazione di
quel “niente sarà come prima” per affermare che “tutto sarà come
prima”.
Non mi riferisco ad una sorta di statalismo endemico, ma
piuttosto ad una responsabilità comune, quindi politica, di guidare la
trasformazione.
Senza dire, e questo è un ultimo aspetto, che la liquidità che si
immette nel sistema è tutta a “debito”. E se da una parte la
solidarietà verso gli individui e famiglie bisognose è un dovere che
la collettività, attraverso il debito si assume, non è chiaro quale è
la valenza di rilanciare il sistema produttivo così com’era, mentre si
aspira ad una situazione completamente diversa.
L’ultima osservazione ma piuttosto e una domanda che mi faccio e che
vi faccio: le situazioni di crisi sono la condizione migliore per
operare delle trasformazioni? Storicamente mi pare di si, anche se gli
esiti spesso sono diversi dagli attesi e talvolta tragici. Su questo
merita riflettere.
Francesco Indovina